martedì 22 aprile 2014

Pasquetta e lago di Bolsena

Le pasquette da bambina odoravano di erba bagnata, di arrampicate sugli alberi di fico, di fave verdi sgranate al sole, di rincorse con i cugini tra gli alberi di ulivo, di formaggio  fresco e frammenti di gusci d’uovo sodo che si infilavano tra le pieghe dei vestiti, di lentiggini spuntate sul viso roseo leggermente accaldato, di pane appena sfornato. Le pasquette di un tempo odoravano di terra, di campagna, di ricordi ancestrali. La nonna, gli zii, i cugini.

Qualora mi ritrovassi negli stessi luoghi, con le stesse persone, le pasquette oggi avrebbero comunque una fragranza diversa. Siamo tutti cambiati, plasmati dall’incedere del tempo. Alcune persone sono venute meno, altre hanno bussato alla porta del mondo.


La pasquetta di quest’anno è stata lontana da quei miei luoghi natii, è stata ad ogni modo un’immersione nella natura. La salute di Nicolò fino all’ultimo ci ha fatto tentennare sulla possibilità di poter far qualcosa all’aperto, poi alla fine complice una bella giornata di sole, all’ultimo minuto ci siamo lanciati in un’improvvisata gita fuori porta al lago di Bolsena.


Data la mancanza di organizzazione siamo partiti tardi e ripartiti presto per paura che la frescura della sera potesse peggiorare la bronchite del bambino; il tempo, quindi, in cui abbiamo potuto godere della salubrità del luogo è stato veramente tiranno, ma ad ogni modo sufficiente per staccare la spina.

La giornata è stata splendida, una gita al lago la meritava proprio.


Diverse famiglie come noi nelle prime ore del pomeriggio si erano riversate lungo le spiagge, per qualche scampagnata protratta, per far giocare i bambini o semplicemente per poter approfittare dei primi raggi di sole della stagione.




Tra teli stesi sulla sabbia, palloni e zainetti, abbiamo trovato anche noi un angolo di mondo dove poter mettere su un nostro piccolo accampamento di fortuna.



Da quell'angolo di lago, una  volta appagate l'esigenze di stomaco del bambino (perchè altrimenti vien su Nettuno), e liberata la macchina fotografica  per qualche scatto fugace ci siamo fermati un pò a godere la calma placida del lago.

Così come mi ha emozionato la prima volta che portai Nicolò al mare, allo stesso modo, questa gita al lago è stata particolarmente coinvolgente. Se potessi augurare qualcosa a mio figlio, di sicuro l’essere viaggiatore del mondo è alla cima delle cose da fare nella vita. Ammirare il tramonto sul mare, il sorgere del sole da una montagna, lo scorrere di un fiume, i pesci guizzare in uno stagno, gli uccelli gorgheggiare su di un ramo di un albero, sono quelle cose belle e gratuite che la vita ci offre e a cui bisogna sempre esser grati.




Nicolò con le sue mani cicciotte, una volta seduto sulla spiaggia, ha iniziato ad afferrare la sabbia e dopo aver appurato, in un momento di nostra distrazione, che questa non fosse commestibile, ha ripiegato su un più innocuo gioco di trasporto dei granelli di sabbia su scarpe e gambine.



E anche questo semplice gesto mi ha fatto capire quanto il mio ometto cresca di giorno in giorno, a volte troppo rapidamente sotto i miei occhi.

Quella di quest'anno è stata una pasquetta diversa, forse un po’ troppo corta, forse un po’ troppo fugace. Un tempo senza il bimbo armati di macchine fotografiche avremmo girato per  il paese ad assaporare i luoghi, a godere dei piccoli particolari, degli angoli nascosti. Un tempo probabilmente non ci saremmo seduti sulla spiaggia ma avremmo camminato fino a quando le gambe avrebbero retto la stanchezza. 

Ma nel nostro presente ci sono meraviglie che viaggiano con noi, e questo forse ci appaga, ci fa smettere di essere alla continua ricerca di qualcosa.

Abbiamo sempre curiosità di scoprire nuovi cantucci nel mondo, ma abbiamo deciso per forza di cose di prenderci una piccola pausa per avere il giusto tempo per  apprezzare il nostro presente.




E anche se prima di avere un figlio ci eravamo ripromessi, che una volta in tre non saremmo stati quei genitori che passano tutti i week end al centro commerciale, è inutile negarlo la vita un bambino po’ te la cambia.







sabato 5 aprile 2014

Bussoladay

Oggi è il bussoladay….

Oggi Bussola diventa un po’ meno bimba. Lei grande proprio non ci vuole diventare. Ogni anno la stessa storia. Il ruolo da adulta proprio non fa per lei. Lei adora le cose dei piccoli, i giochi dei bimbi, i bimbi in generale. Da quando è diventata mamma poi è ritornata a giocare con i bambolotti. Quello di ora è ancora più bello, perché ha le gambotte morbidose, i buchini alle manine, ed è in grado di abbracciarla e di sbavarla tutta con quella  sua boccuccia morbidosa.

Oggi lei farà un compleanno speciale, mangerà pane e tachipirina, taglierà  una torta all’antibiotico, berrà acqua e oki, scarterà regali trovando dei termometri. Perché questo compleanno è così speciale che la temperatura le schizza per l’emozione.

A Bussola tutte l’avevano messa in guardia. “Vedrai quando inizierà il nido, il bimbo sarà sempre malato…. Me lo ricordo io con il mio era più il tempo in cui il bambino  stava a casa che a scuola… il brutto dei nidi è che i bimbi ti si ammalano sempre…. Si il nido una grande comodità peccato che i bambini ti si ammalano”.
Tutti glielo avevano detto, ma avevano tralasciato un piccolo dettaglio. Era una parziale verità. Perché la verità completa è “i bimbi si ammalano sempre e le madri appresso a loro. E i virus dei bimbi sono cattivissimi con gli adulti!”.

Da circa una settimana combattiamo una estenuante difensiva io e Nicolò contro virus e batteri. Io derelitta in una stanza con febbre anche a 39,5 e Nicolò ansimante come un carlino sul suo seggiolone. Fortuna per la suocera che è venuta ad arginare i danni di questa nave che rischiava di crollare a picco.

In compenso ieri sono nati due bimbi di due mie amiche ed è sempre molto bello quando una vita nasce. Quindi faccio gli auguri anche qui ad entrambe in particolare a Luisa per l’arrivo del suo piccolo (che poi tanto piccolo non è) Flavio.


mercoledì 26 marzo 2014

Io parto da qui

“Fai cacca, fai cacca!!!” diceva l’ostetrica, una ragazza dolce, con i capelli lisci castani che le incorniciavano un viso da brava ragazza. Mi teneva le gambe aperte bloccate per le caviglie e mi incitava a spingere.

Nella stanza risuonava il cardiotografo. Il battito del bambino era incalzante poi ad ogni contrazione si perdeva. Io spingevo, simulavo di fare la cacca come mi aveva spiegato la ragazza, incanalavo la forza prorompente della contrazione spingendo verso il basso, e guardavo il foglio di carta uscire dal cardiotografo.

Ogni volta che c’era la perdita del battito cardiaco, la linea del battito si interrompeva. Rimanevo in apnea io in quel silenzio che durava qualche secondo. Sospesa in quello spazio bianco, di linea frammezzata.

“E’ normale, capita, probabilmente avrà qualche giro di cordone ombelicale intorno al collo”.
A me non sembrava usuale.

“Fai cacca, fai cacca!!!”

Un’altra fitta lancinante. Vedevo le stelle.

“Vi prego toglietemi l’ossitocina, non ce la faccio”

Ero stata calma, gentile. Anche nel dolore più acuto avevo mantenuto il controllo. Mentre in una stanza accanto alla mia si sentivano urla strazianti di donna, io rimanevo composta anche nel dolore. Non volevo creare problemi, volevo solo che finisse tutto in poco tempo e volevo solo conoscere mio figlio.

Quel “Vi prego toglietemi l’ossitocina” lo avevo implorato, detto frammezzato tra i denti, sussurrato dalla lingua misto al sapore di lacrime.

“Non possiamo, proprio ora che le contrazioni sono diventate perfette” mi aveva risposto la ragazza, mostrandomi dal foglio sputato fuori dal cardiotografo dei picchi alti e stretti a decorso regolare, immagine delle mie contrazioni

“Se vuoi possiamo fare un’altra epidurale”

Il travaglio era partito da venti ore. Venti ore che mi erano sembrate un tempo infinito. Interminabili come venti anni. Un’intera notte ad aspettare che il parto si aprisse, un’intera mattinata ad attendere che le contrazioni diventassero dell’intensità giusta, e poi quando finalmente mi ero ritrovata a spingere e a pensare che di lì a poco tutto sarebbe finito, mi ritrovavo in quella stanzetta a macinare acqua.

Spingevo, ma dopo venti ore di travaglio non avevo più nemmeno la forza di muovere i pensieri, figuriamoci il corpo.

“Come va qui?”

Disse la mia dottoressa, appena entrata nella stanza a controllare, sorridendomi con la sua encomiabile dolcezza

“Il bimbo si è incanalato, sento la testa, ma non scende. E’ bloccato all’altezza del gomito del canale”. 

L’ostetrica fece spazio alla dottoressa perché potesse controllare anche lei.

“Voglio il cesareo, non è possibile avere un cesareo?”

Per l’ennesima volta le parole mi uscivano come una supplica.

“Ma come un cesareo? Dopo tutto questo?”

Non capii il senso di quelle parole, e nella concitazione di quei momenti mi ritrovai a desistere al primo tentativo, completamente in balia di quegli istanti.

La dottoressa mi spiegò che avrebbe chiamato un suo collega, per decidere insieme. Dopo poco vidi far capolino dalla porta i due camici bianchi.

Il nuovo dottore fu scortese. Sferzante. Glaciale.

“Lei è poco collaborativa, quando le dicono spinga deve spingere, così non andiamo da nessuna parte!”

Erano venti ore che non mangiavo, non dormivo preda solo di dolori da contrazioni. Non avevo un filo di energia , ma quel poco che mi restava l’avrei volentieri usata per spaccare la faccia a quel dottore.

Che ne poteva sapere di come si stava nella mia condizione? Perché non ci si metteva lui su quel lettino a spingere una parte del corpo che ti è intima ma allo stesso tempo estranea?

Lasciai che il silenzio portasse via le sue arroganze, e i miei dissapori.

“Che ne dici se facciamo la manovra?” disse la dottoressa al collega

Il dottore si raddrizzò sul collo come un cappone, a voler indicare il suo non completo accordo sull’ipotesi. 
Poi alla fine l’idea della manovra fu quella che prese il sopravvento.

“Ora ti portiamo una stanza e ti diamo una mano in questo parto, ma tu devi mettercela tutta”

Quelle parole mi scivolarono addosso come acqua fresca in bocca dopo una lunga corsa. Finalmente vedevo una fine. Non ce la facevo più. Ero arrivata. La cosa si era rivelata al di sopra delle mie capacità. Mi avessero fatto qualsiasi cosa, a me andava bene, basta poter veder l’epilogo di quella giornata e quindi il volto di mio figlio.

Mi trasferirono in sala operatoria. La sala si gremii di medici. Capii che quello che stava per succedere era qualcosa di non ordinaria amministrazione.

Mi si avvicinò il dottore e mi parlò questa volta con voce calma e stranamente amabile. Percepii la tensione sul volto di tutti.

“Il tuo bambino è rimasto bloccato all’interno del canale. Tu non riesci a spingerlo fuori, proviamo quindi ad intervenire noi da fuori. Prima la dottoressa e poi io spingeremo sulla tua pancia. Quando senti la spinta tu devi spingere insieme a noi altrimenti sarà doloroso. Hai capito?”

Annuii

“E’ importante che tu spinga”

Annuii per la seconda volta.

La dottoressa cinse un lenzuolo ad una sponda del lettino. Tutti presero posizione come soldatini di latta per gioco delle mani di un bambino.

“al mio tre” disse la dottoressa.

La sentii contare: l’uno, il due …il tre non lo percepii. Mi sentii scaraventata in cielo dal dolore e poi da lì ricadere rovinosamente sulla terra. Aveva spinto con i gomiti sul mio pancione, tenendosi aggrappata al lenzuolo saldato al lettino. Il dolore era stato inimmaginabile.

Dalle gambe avevo sentito sgusciare fuori qualcosa. Nessun pianto. Niente. La spinta non era stata del tutto sufficiente. Non avevamo finito.

Questa volta si mise in posizione il dottore. Per la seconda volta morii dal dolore, per poi riprecipitare sul mio lettino di ospedale.

Una sensazione di qualcosa che sguscia dalle gambe. “Si era incanalato con il braccio” dissee qualcuno “ecco perché si era incastrato”.

Un pianto irruppe nella stanza. Un pianto che io percepii infrangere le finestre della stanza, disperdersi per le colline, raggiungere le vette della montagna, correre sulle ali dei gabbiani, sospinto dal vento, dalla vita, da Dio.

Un pianto che mi rendeva madre. Un pianto che mi faceva partecipe di quel grande miracolo che è la vita.


Ce l’avevamo fatta. Io e mio figlio ce l’avevamo fatta

Con questo post partecipo a questa bellissima iniziativa: io parto da qui



sabato 22 marzo 2014

Il ritorno alle vecchie cose

E’ da un po’ che non scrivo sul blog. Ho ripreso a lavorare e questo spiega molte cose.

Ho poco tempo. Ogni cosa che faccio che esuli da Nicolò, mi fa sentire un po’ in colpa. Tolgo tempo a lui, mi perdo un suo sorriso, mi perdo le sue mani cicciotte che si infilano tra i miei capelli. Perdo i miei capelli nella sua bocca.

Vado quindi sempre di corsa. Di corsa vado a lavoro, prima arrivo e prima posso uscire, di corsa lascio il lavoro. Con l’effetto finale che quando sono al lavoro mi sento in colpa, perché in quel preciso istante perdo un pezzo di mio figlio, e quando torno a casa mi sento in colpa perché mi sento approssimativa nelle mie vecchie mansioni in ufficio.

Ho il periodo lavorativo ridotto per allattamento, metà ore lavorative fino al compimento del primo anno d’età del cucciolo, ma questo non è sufficiente a farmi sentire meno in ansia.

Ad ogni modo, aver ripreso l’attività lavorativa non è stato solo un passaggio da dimenticare, in qualche modo mi ha fatto bene.

Sono rientrata nei miei vecchi panni. Mi sono rituffata nella mia vecchia vita, che per quanto priva di quel dono meraviglioso che è un figlio, in qualche anfratto del mio cuore ad ogni modo mi è mancata.

Ho ripreso a truccarmi, che seppur insignificante, è sintomatico di un ritorno al mondo civilizzato, fatto di rapporti sociali, di chiacchiere con amici, di incontri casuali. Sui mezzi pubblici, in viaggio verso il lavoro, ho ripreso a leggere i libri. Libri che non parlano di maternità, allattamento, figli, svezzamento. Libri di narrativa nazionale e internazionale. Best seller. Quel genere di libri che mi sono mancati per più di nove mesi, affamata com’ero di nozioni sulla maternità. E’ infine, sono tornata a bere il caffè alla macchinetta del lavoro, che per quanto scadente, diventa caldo e rinvigorente quando preso in compagnia delle proprie amiche e colleghe.

Il boss nel frattempo cresce. Giorno dopo giorno diventa sempre più grande. Ogni nuovo giorno è una piccola scoperta, una conquista. Le prime lallazioni, i primi tentativi per acquisire una posizione da seduto, le torsioni sulla schiena per afferrare un gioco posizionato a suo lato, le prime pappe, le sue prime stitichezze. Insomma in questi suoi primi sei mesi, lui c’è dentro. Presente ad ogni appuntamento.


Vi lascio una foto di carnevale del mio adorabile leoncino.


lunedì 3 marzo 2014

I bambini e la musica

L’effetto benefico della musica sull’essere umano è noto da secoli. La musica fa bene al cuore e può essere uno strumento di aiuto nella prevenzione di infarti ed ictus. Secondo uno studio condotto da un team tutto italiano di Luciano Bernardi, il flusso sanguigno varia a seconda del ritmo musicale; di conseguenza si potrebbe provare a controllare il flusso cardiovascolare utilizzando ritmi musicali differenti.

Si è notato che ritmi veloci aumentano la pressione ed il battito cardiaco, mentre ritmi più rilassati ne causano la netta riduzione.

Per chi volesse approfondire,  la pubblicazione del ricercatore italiano è qui

Negli ultimi anni la vita perinatale, inoltre, ha suscitato l’interesse di molti uomini di scienza. Si è visto che il bambino subito prima e dopo la nascita è a suo modo in grado di recepire alcuni stimoli che vengono dal mondo esterno e da questo trarne giovamento. Viene da sé che una delle prime cose ad essere investigate è  stato l’effetto benefico della musica sullo sviluppo delle capacità cognitive del bambino e sul benessere in senso lato che esso ne può trarre.
C'è una folta letteratura in tal senso leggete qui.

Detto ciò tornando a me che sono un po’ terra terra, vi dico che già dal pancione ho provato a far interagire Nicolò con la musica. Perché? Vuoi per curiosità, vuoi per amore di mamma che crede che se suo figlio avesse nel pancione un pianoforte sarebbe già Mozart, vuoi per deviazione di studi scientifici, vuoi perché in gravidanza il tempo in qualche modo lo si deve pur passare. Insomma, vuoi per questi ed altri motivi io c’ho provato.

Essendo originaria di Lecce, non potevo non iniziare mio figlio alla pizzica salentina. Lu rusciu de lu mare, la mia preferita. Sentita la mia pancia andare in fibrillazione, e animarsi in una serie di salti, capriole, alle prime note della canzone popolare  mi inorgoglivo tutta dall’emozione, per questo suo 50% di sangue pizzicato che si faceva sentire prepotentemente.

Se invece gli facevo ascoltare Nenie e ninne nanne non traevo nessun segnale degno di nota. Ne dedussi che le ninne nanne non gli piacessero e lo tediassero.

Scrissi qualcosa in merito qui.

Non so se avete notato ma oggi gli iperlink si danno a manica larga!!!!

Qualche settimana fa per curiosità ho provato a far ascoltare a Nicolò quelle musiche che avevano accompagnato alcuni momenti del suo viaggio nel pancione. L’effetto mi ha lasciato a dir poco senza parole.
Guardate la reazione alle note della pizzica, di cui ero tanto convinta fosse la sua preferita.




A differenza di quanto pensavo, le note concitate e I ritmi incalzanti della canzone lo innerviscono così tanto da provocargli il pianto. Il video è interrotto perchè quando ho visto che la cosa stava prendendo una brutta piega ho preferito interrompere l'ascolto.
Con buona probabilità quelle capriole che io sentivo nel pancione, non erano proprio salti di gioia.

Mentre vi faccio vedere una volta nato la reazione ad una di quelle canzoni che pensavo non avessero per lui nessun interesse. I bambini fanno Oh di Giuseppe Povia.


La canzone gli piace tanto che rimane incantato a sentirne le note, ecco perchè non sentivo nessun movimento nel pancione. Povia è ormai un nostro alleato nei momenti difficili. La faccia che fa quando sente le prime note della canzone mi fa troppo ridere.



Ed ecco una dimostrazione anche qui. Se notate lui vedendo il cellulare presuppone già che sentirà a breve la canzone, e fa quindi dei pianti ad intermittenza, in attesa che la melodia parti


Strabiliante vero?



giovedì 27 febbraio 2014

Nicolò e l'asilo

Sono figlia di un’insegnante di scuola elementare ed ho sempre ritenuto di enorme importanza nella formazione della personalità di un individuo i rapporti interpersonali con i propri simili. Appena è nato Nicolò non ho avuto dubbi sull’idea di mandare il pargolo all’asilo. Ero ancora donna panzuta, ormai agli sgoccioli con il conto alla rovescia e ammazzavo le giornate girando per asili, informandomi, facendo domande al corpo docente, per capire quale sarebbe stato l’asilo a cui avrei iscritto il marmocchio di casa.

Ne ho visitati tanti fino a scegliere quello che mi dava particolare fiducia, sotto una serie di fattori: motivazioni dell’insegnanti, cura degli ambienti, attenzione alle attività, flessibilità d’orario.

Avevo fatto un conto sommario che tra aspettativa a cui avevo diritto per la nascita del figlio e giorni di ferie non consumati, avrei ripreso a lavorare nuovamente ad inizi del mese di Marzo, ben 5 mesi e mezzo dal giorno del mio parto. Indicai subito la data approssimativa al direttore dell’asilo e ci accordammo di sentirci successivamente quando i tempi sarebbero stati più maturi.

Il 19 Settembre è nato Nicolò, e la mia vita è cambiata. Da una madre nell’immaginazione, nei miei sogni, nella mia aspettativa sono diventata una madre nella realtà. Quel mucchietto di ossa e pelle morbidosa ha iniziato a fagocitare ogni minimo istante della mia esistenza. Sono entrata in un turbinio di emozioni forti dove la gioia si alternava con lo sconforto, la tenerezza con la frustrazione di non saper fare abbastanza. Poi giorno dopo giorno, con calma e costanza, ho iniziato a trovare la chiave di lettura, ad imparare ad interpretare le sue necessità, i suoi bisogni, ad abituarlo a venire incontro anche lui alle mie. Giorno dopo giorno, diventavamo una madre e un figlio, che riuscivano a comunicare tra di noi, a capirci, anche se a volte alla bene e meglio, non al primo tentativo, ma alla fine si raggiungeva sempre l’intesa.

Con l’arrivo del Natale, ritornava in auge anche il discorso dell’asilo. Se prima dell’importanza di questo non  avevo dubbi, con l’approssimarsi del nostro distacco mi sono emerse tutta una serie di perplessità e di reticenze.

In quei primi mesi di contatto continuo, giorno e notte, minuto e secondo, avevo a fatica guadagnato un rapporto di sintonia con mio figlio ed avevo soprattutto capito che un bambino così piccolo, non è negoziabile. Con un bimbo così piccolo è difficile scendere a trattative, se lui vuole mangiare e io volevo andare in bagno, di  sicuro entro breve mi ritrovavo a dargli da mangiare a gambe incrociate. In caso contrario, le urla provenienti da casa sarebbero state in grado di rompere le vetrate agli abitanti del piano terra e del seminterrato oltre a quelle dell’intera palazzina. Crescendo un bimbo impara a trattare a darsi pazienza, ma i primi mesi no, è lui che comanda e lo farà capire presto. Un bimbo così non si parcheggia su un letto, nemmeno per pochi minuti, perché lui ha bisogno di attenzioni e ne ha bisogno in maniera costante.

All’asilo in mia assenza sarebbero riusciti a dargli tutte quelle attenzioni che lui meritava? Con tanti bambini è possibile che il mio non si sarebbe trovato parcheggiato in un angolo su un qualche materassino? Cinque mesi non erano forse troppo pochi per esser staccato da una persona così presente come la madre?

Erano interrogativi a cui non sapevo dar risposta e che mi hanno logorato per diverse settimane. Ho ripreso nuovamente in considerazione la baby-sitter, la nonna sitter e altro, non mi sono data pace.

Poi alla fine mi son detta, che niente è per sempre, non lo sono spesso i matrimoni, figuriamoci gli asili, potevo sempre tentare e se la cosa non mi convinceva abbastanza, avevo tutto il tempo per escogitare un piano B.

Il primo suo giorno di asilo è stato più emozionante per me che per lui. A differenza di tutte le reticenze che avevo avuto in precedenza a quella data, il mattino del suo ingresso a scuola, mi sono alzata, emozionata e felice. Lui affamato come tutti gli altri giorni.

Abbiamo fatto entrambi colazione, e poi tutti cambiati e profumati ci siamo diretti verso questa nuova esperienza. Il primo giorno doveva esser solo di presentazione del bambino, e delle sue principali abitudini alimentari, e di comportamento; niente più.

Mi sono ritrovata su un tappetino a gambe incrociate davanti ad un’insegnante che prendeva appunti sul tipo di frutta che poteva mangiare, il tipo di carne, le verdure, il latte materno, su come dormiva, quanto e a che ora, sulla sua indole e la sua tabella di abitudini ordinarie.

Nicolò sdraiato davanti a noi osservava quel nuovo mondo. Osservava i bimbi che camminavano e a volte inciampavano nei loro primi passi imprecisi, osservava le palle di gomma che rotolavano sul pavimento, le altalene che oscillavano sospese dal soffitto, le scarpe delle maestre che issavano ora un bimbo per il cambio ora aiutavano ad alzarne un altro che gattonava.

-      -  Mamma per me è concluso, potete andare via – mi ha detto la maestra una volta compilato l’intero modulo. - Possiamo cominciare da domani a provare il distacco.

Ho guardato Nicolò. Era completamente immerso con lo sguardo in quel suo nuovo mondo. Ammaliato da tutti quei colori, quelle forme, quei suoni. Era attento, concentrato nello studio. Non me la sentivo di allontanarlo da quelle sue prime scoperte.

La maestra deve avermi letto nel pensiero, perché ha aggiunto
-        - A meno che non vogliamo fare una prova già da subito.

Ho accettato.

Dopo venti minuti, come da accordi sono andata a riprenderlo, senza pianti, senza paura, né da parte mia né sua.

Ormai è passata poco più di una settimana da quel primo giorno di scuola. Nicolò si ambienta ogni giorno di più, senza traumi o esitazioni. Lo trovo una volta sull’altalena, una volta in braccio ad una maestra, una volta in fascia ad un’altra, una volta su un tappetino che studia cubotti di gomma.

Io provo una forte emozione ogni volta che lo lascio, e una forte emozione ogni volta che vado a riprenderlo. Lui una forte voglia di tetta.

Cresciamo entrambi giorno dopo giorno.

Sono contenta della scelta fatta, perché ogni volta che lo lascio vedo in lui un bimbo ogni giorno più grande, vedo in lui la promessa dell’uomo che sarà.


mercoledì 5 febbraio 2014

L'idraulico

E’ domenica, una domenica di inizio febbraio. La pioggia scrosciante tiene fede alle immagini che la televisione manda di una Roma allagata. Pioggia ovunque, battente, incessante, senza sosta.

 Fab si accorge che il termosifone nella cucina a vista perde. E’ domenica, non può chiamare l’idraulico, deve aspettare il lunedì. Bussa al vicino di casa, per verificare se la nostra perdita è andata ad intaccare pure le sue pareti, ma per fortuna da lui nessuna traccia di umidità, a quanto pare il problema è solo nostro

Lunedì Fab chiama l’idraulico che ci fissa un  appuntamento per martedì pomeriggio, ieri.

L’uomo è di parola, alle sei, alla fine della sua giornata lavorativa è alla nostra porta per verificare il danno e anche una strategia di lavori da fare. A casa ci siamo tutti: io, Fab e il boss.

Il boss è un po’ nervoso. Da due giorni ha iniziato a sostituire la poppata di mezzogiorno con una pappina di brodo di verdure, omogeneizzato di coniglio e crema di riso, e se in quanto ad apprezzarne il gusto il boss non si fa problemi, gli resta forse un po’ difficile la digestione. La sera si trascina un nervosismo che lo accompagna fino alla notte.

L’idraulico è un tipo simpatico. Parla a raffica della sua passione per i bambini, dei suoi primi clienti, dei figli di tante cose, compreso della sfiga che abbiamo avuto che in meno di un anno ci si sono rotti due termosifoni. Preparo un caffè in questo turbinio di parole, mentre Fab  tiene in braccio un boss piagnucolante e capriccioso. Esce il caffè, chiedo quanto zucchero mettere, e posiziono vassoio, tazzine, e zuccheriera sul tavolo. Libero Fab dal boss, per lasciarlo sereno a prendersi il caffè, per me è troppo tardi, dopo un certo orario il caffè mi procura insonnia.

Il boss continua a frignare in braccio a me. Cerco di distrarlo mostrando le cose intorno a lui.

“Cos’è questo? Il libroooooo…. O mamma che bello il libro di Nicolò”

Mi guarda interdetto. Guarda me e poi l’oggetto. Non ride ma almeno ha smesso di frignare.

La strategia sembra esser quella giusta. Continuo a cercare oggetti intorno a me.

“E questo? Cos’è questo????…… O cavoli ma è la tazzina di papà…. E’ proprio bellissima questa tazzina”

Lui continua a stare in silenzio, e a guardare quello che gli ho appena mostrato.

“E questo????”

Apro gli occhi e vedo bene cosa sto cercando di indicargli. Lì realizzo.

Caxxo il tiralatte proprio in bella mostra sul tavolo, a nemmeno un palmo di distanza dal vassoio  dove l’idraulico sta candidamente sorseggiando il suo caffè.


Un pensiero fugace, e la realizzazione che sono arrivata veramente alla frutta.

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